Riflessioni all’indomani delle modifiche alla preghiera del Padre Nostro a cura di Mons. Ivan Santus
«Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 5,12).
Luca riprende lo stesso vocabolario: «perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore». Gli esegeti si stupiscono dell’aggiunta, notando che «rimetti i nostri debiti» è l’unica domanda non semplice. Le altre lo sono tutte: sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, si compia la tua volontà, dacci il pane. Qui si rompe lo schema unitario della preghiera e gli esegeti si chiedono se è parte davvero della preghiera originaria insegnata da Gesù. Tutto però fa capire che lo è. Ed è inoltre l’unica domanda a cui Gesù pone una condizione, e ci chiama in causa. La versione greca ha un’espressione stranissima, su cui discutono gli esegeti: «os kaì emeis “aphèkamem” tois ophelètais emòn», «come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori». Sembra quasi che prima abbiamo dovuto perdonare e poi possiamo chiedere perdono. E’ vero che gli esegeti sogliono mitigare questa espressione dicendo che il perfetto aphèkamen è un perfetto presente, cioè noi «siamo soliti rimettere». Il legame rimane comunque strettissimo.
Che cosa suppone quindi questa preghiera? Suppone una comunità litigiosa, divisa, in cui le offese sono reciproche, dove ci sono aspettative non corrisposte, recriminazioni, attese deluse. Ed è talmente forte tale preghiera che, come ho già ricordato, il solo commento al Padre Nostro nel Discorso della montagna è quello aggiunto alla fine della preghiera: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà a voi; ma se voi noi perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14-15). E’ una condizione assoluta e sottolinea che il Padre bel conosce che siamo poveri, fragili, che ci offendiamo facilmente gli uni degli altri. Egli vuole garantire che il suo perdono sia sempre accompagnato dal perdono nostro. L’esigenza di Gesù è formidabile. A noi verrebbe da dire: chi ha qualcosa contro di me, ci pensi lui. Il Signore invece vuole che facciamo il possibile perché l’altro non abbia niente contro di noi. Comprendiamo il motivo dell’insistenza di Gesù: perché il Padre agisce così, Dio è così, ed è così glorificato. «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (v. 48). La domanda del Padre Nostro «rimetti a noi i nostri debiti come anche ni li rimettiamo ai nostri debitori» tocca dunque da vicino ciascuno di noi. In sintesi, quali disposizioni interiori comporta?
Il sentirsi davanti al Padre che mi ama infinitamente e vuole fare di me una cosa sola con Gesù, vuole darsi tutto a me. Il considerare i miei peccati, le mie mancanze, come insolvenze d’amore, amore non dato, non restituito, non ricambiato.
Il mettermi, pregando al plurale, in relazione con tutti i peccatori: «Rimetti a noi i nostri debiti», solidarizzando con i peccati dell’umanità intera. E ancora, mi dispongo a perdonare di cuore e soprattutto (cosa più difficile) a perdonare a chi non mi ha dato quanto ragionevolmente mi potevo attendere. Questa disposizione riguarda anche le famiglie (genitori-figli, fratelli), le relazioni di amicizia e di comunità.
E’ un insegnamento tipicamente evangelico, che troviamo anche nelle epistole del Nuovo Testamento: «Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità» (Ef. 4,31). Asprezza: quando mi irrito con chi mi ha fatto un torto; sdegno, perché non mi è stato dato ciò che mi aspettavo; ira, perché non sono stato soddisfatto. «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo. Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi; e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (4,32 – 5,2). Si potrebbero citare tanti altri passi che insistono su questo insegnamento, ma ciò che è interessante notare, è che l’evangelista Marco, pur non riportando la preghiera del Padre Nostro, scrive: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati» (11,25). Dunque l’esortazione è presente in tutti gli strati neotestamentari, perché assolutamente caratterizzante del messaggio di Gesù.
Non abbandonarci alla tentazione. La richiesta appare un po’ scandalosa nella sua formulazione. Sant’Ambrogio ad esempio, traduceva: «non permettere che cadiamo nella tentazione». In ogni caso è chiaro che il Padre Nostro dà spazio alla tentazione, la fa oggetto di una domanda specifica. E può stupire che, ci sia ancora una preghiera che riguarda la liberazione dalla tentazione. In realtà la tentazione è la parte importante dell’esperienza cristiana, è di fatto un’esperienza quasi quotidiana. Gesù ci ha avvertito, dicendo agli apostoli: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41; mentre lui stesso è stato tentato da tristezza e paura (cf vv. 37 – 38): Gesù ha pure voluto cominciare il suo ministero pubblico proprio sottoponendosi nel deserto alle tentazioni di satana, come raccontano i sinottici: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo». (Mt 4,1; cf Mc 1,12-13 e Lc 4,1-2)
Se la tentazione è parte integrante della vita cristiana, cerchiamo dunque di capire che cosa significa «non abbandonarci alla tentazione» o: «non permettere che cadiamo nella tentazione». Anzitutto è chiaro che il «non abbandonarci alla tentazione» non vuol dire che Dio ci lascia soli nel male, ma che permette la tentazione come parte della nostra esperienza, che in qualche modo ci è necessaria per crescere nella fede, speranza e carità. Naturalmente è una trappola in cui il tentatore satana fa di tutto per farci cadere. E noi chiediamo di essere liberati da questa trappola, che è realissima e pericolosa, anche si ci passiamo a fianco, se cerchiamo di evitarla.
Come perdono dei peccati «rimetti a noi i nostri debiti» è legato al perdonarci a vicenda i torti subiti («perdona a noi i nostri peccati come anche noi li rimettiamo a quelli che ci hanno offeso»), allo stesso modo la difesa da quella trappola del nemico che è la tentazione è legata, in forza delle parole di Gesù, alla fuga dalle occasioni. Non è detto nel Padre Nostro e però mi sembra implicito: «Non abbandonarci alla tentazione», così come da parte nostra cechiamo di evitare le occasioni di peccato.
Vorrei concludere prendendo in prestito le parole utilizzate dal Cardinal Giacomo Biffi, il 29 ottobre dell’anno 2000, durante una meditazione per il giubileo diocesano dei catechisti: «Chi è “di Cristo” riceve in dotazione anche la certezza dell’esistenza di Dio. Ma non di un Dio filosofico, che all’uomo in quanto uomo non interessa granché; non di un Dio che viene chiamato in causa solo per dare un inizio e un impulso alla macchina dell’universo, e poli lo si può frettolosamente congedare perché non interferisca e non disturbi; non di un Dio che, dopo il misfatto della creazione, parrebbe essersi reso latitante (….).. Il nostro Dio è “il Padre del Signore nostro Gesù Cristo”, come amava ripetere s. Paolo. E lo si incontra, incontrando Gesù di Nazaret e il suo Vangelo: “Nessuno conosce il Padre se non il Figlio – lo ha detto esplicitamente – e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27)». (Fine)