Riflessione sul tema del III° Convegno: “ Venite a me” (Mt. 11,28-30)
Castellammare di Stabia 28 Aprile – 01 Maggio 2018
a cura di don Danilo Spagnoletti – Assistente spirituale della Comunità
Vangelo: Mt 11,25-30
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
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11:26 na… {sì}, Ð pat»r {padre}, Óti {perché} oÛtwj {così} eÙdok…a {piaciuto} ™gšneto {è} œmprosqšn sou {ti}.
11:27 p£nta {ogni cosa} moi {mi} paredÒqh {è stata data} ØpÕ {in mano} toà {dal} patrÒj {padre} mou {mio}, kaˆ {e} oÙdeˆj {nessuno} ™piginèskei {conosce} tÕn {il} uƒÕn {figlio} e„ {se} m¾ {non} Ð {il} pat»r {padre}, oÙd {e} tÕn {il} patšra {padre} tij {nessuno} ™piginèskei {conosce} e„ {se} m¾ {non} Ð {il} uƒÕj {figlio} kaˆ {e} ú ™¦n {colui al quale} boÚlhtai {voglia} Ð {il} uƒÕj {figlio} ¢pokalÚyai {rivelarlo}.
11:28 deàte {venite} prÒj {a} me {me} p£ntej {tutti} oƒ {che} kopiîntej {siete affaticati} kaˆ {e} pefortismšnoi {oppressi}, k¢gë {e io} ¢napaÚsw {darò riposo} Øm©j {vi}. | {voi}
11:29 ¥rate {prendete} tÕn {il} zugÒn {giogo} mou {mio} ™f’ {su di} Øm©j {voi} kaˆ {e} m£qete {imparate} ¢p’ {da} ™moà {me}, Óti {perché} praäj {mansueto} e„mi {io sono} kaˆ {e} tapeinÕj {umile} tÍ {di} kard…v {cuore}, kaˆ {e} eØr»sete {voi troverete} ¢n£pausin {riposo} ta‹j {alle} yuca‹j {anime} Ømîn {vostre}:
11:30 Ð {il} g¦r {poiché} zugÒj {giogo} mou {mio} crhstÕj {dolce} kaˆ {e} tÕ {il} fort…on {carico} mou {mio} ™lafrÒn {leggero} ™stin {è}. | {è}
Premessa
Come sempre prima di iniziare ci ricordiamo che non si tratta di un “insegnamento” ma di una “riflessione”. Non abbiamo niente di nuovo da proporre, ma tanto da imparare e da lasciarci istruire dal Signore.
La riflessione è come uno specchio davanti al quale si pone innanzitutto chi è chiamato a comunicare (e quindi fa bene per primo a chi la prepara…) e poi ne traggono giovamento tutti quelli che la ascoltano con il cuore, chiudendo gli occhi (senza addormentarsi, possibilmente…) e lasciandosi istruire dalla voce stessa dello Spirito che parla al cuore di ciascuno, in maniera assolutamente personale.
Da ogni riflessione, ciascuno trarrà quanto gli occorre per far crescere e purificare la propria fede, ognuno riceverà doni differenti e stimoli appropriati.
Per questa ragione non esistono riflessioni “belle” o “brutte”, così come gli specchi di per sé sono tutti abbastanza simili tra loro (al massimo cambia la cornice…). Ma tutto dipende dal coraggio (e la mattina a volte ce ne vuole proprio tanto!) di guardarsi dentro, di “stare al gioco”, di riflettere, appunto…
Il contesto
Quest’anno il Signore ci ha fatto dono di un passo molto particolare, che come tutti i passi “famosi”, va riletto sempre con estrema prudenza, perché siccome lo abbiamo ascoltato chissà quante volte, potrebbe rivelarsi una “canzoncina” da canticchiare, ritenendo erroneamente di sapere già tutto o, peggio ancora, di arrivare alla conclusione che ci interessa (il tema del Convegno: “Venite a me”) senza interessarci del contorno che lo accompagna.
Per questo innanzitutto mi preme contestualizzare la pericope di Mt 11,25-30 che contiene la frase del nostro Convegno.
Il contesto in cui Gesù pronuncia queste parole è quello del capitolo 11 di Matteo, nel quale Gesù si scaglia contro le città della Galilea che non avevano accolto il messaggio di Gesù. Questi territori erano dominati da una classe dirigente religiosa fatta di dottori della Legge e di scribi che conducevano il popolo a loro affidato non con l’entusiasmo di far incontrare le persone con Dio, ma con uno stile oppressivo e di dominio che, attraverso la manipolazione delle coscienze, faceva sentire la gente in un rapporto di sudditanza con Dio e soprattutto con la Legge di Mosè.
È un momento di grande difficoltà che Gesù sta vivendo e queste situazioni gli procurano delusione e amarezza:
– Giovanni Battista è in carcere, addirittura sfiorato dal dubbio circa l’identità di Gesù (Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?)
– l’incontentabilità delle persone, alle quali non va mai bene niente: il Battista non va bene perché è troppo duro, austero, bacchettone; Gesù non va bene perché è un festaiolo, sempre a banchettare con persone poco raccomandabili;
– le città attorno al lago incredule di fronte ai segni che Gesù pone;
– sapienti ed intelligenti hanno rifiutato il suo messaggio.
Gesù quindi ringrazia Dio perché il Vangelo è rivelato ai piccoli, e non ai sapienti e ai dotti. Gesù risponde non alla folla, non ai discepoli o a qualcuno che passava di lì, ma alla nostra vita di tutti i giorni: è la vita che pone delle domande, è la vita che pone le domande più importanti.
Interessante anche l’atteggiamento di Gesù di fronte alla delusione: assume l’insuccesso e la delusione nella preghiera, mette tutto davanti al Padre e conferma il suo “sì” perché la sua obbedienza al Padre non è condizionata dal successo della sua missione.
Pensiamo anche alle prime comunità cristiane (compresa quella dell’evangelista Matteo), a come hanno imparato quale sia la fonte, la sorgente cui attingere per poter stare salde nella fede in Dio: la preghiera di Gesù, che non inveisce, ma davanti all’insuccesso esplode in una preghiera di benedizione e di lode, una preghiera che nasce dallo stupore, dalla meraviglia che Gesù prova di fronte al modo di rivelarsi di Dio perché i grandi non sono capaci, nella loro supponenza, di lasciarsi visitare dal mistero di Dio.
Questo passo del Vangelo di Matteo diventa così un invito alla liberazione, a vivere il proprio rapporto con Dio e con suo Figlio Gesù non più come una “religione” (nel senso di religo – legame) ma come una fede, cioè come un patto, un’alleanza con Dio basata sulla fiducia.
Se ancora viviamo la nostra religiosità come un insieme di norme da compiere, di leggi da rispettare, di precetti da osservare, a volte con quella scrupolosità legata ai tempi dell’anno, ai giorni di un mese, alle ore di una giornata, quasi che se non si rispettassero puntigliosamente giorni e orari della preghiera, della messa, dei sacramenti, della confessione, il nostro rapporto con Dio si affievolirebbe e si spezzerebbe, come se fosse, appunto, un legame, destinato prima o poi a mostrare i segni classici della stanchezza e della abitudine.
Prima ancora di arrivare al “venite a me”, è bene fare una considerazione sulla nostra condizione, perché non possiamo arrivare a Gesù se prima non abbiamo contemplato la nostra situazione personale.
Che cosa vuol dire essere affaticati e oppressi?
Il popolo ebraico era veramente affaticato ed oppresso soprattutto dalle autorità religiose che, come Gesù denuncerà più avanti, avevano inasprito la Legge caricandola di un’infinità di precetti a cui risultava ormai impossibile ottemperare e che rendevano durissima la vita alle persone.
Il cuore di Dio in Gesù si manifesta attento a coloro che sono stanchi e oppressi. Ancora una volta, il suo cuore è rivolto verso chi soffre, chi non ce la fa, chi si sente schiacciato e deluso dalla vita, verso chi non nasconde a sé stesso la propria debolezza, verso chi sperimenta la sconfitta.
Tre sono le cause dell’affaticamento: la contrarietà delle condizioni esterne, la dispersione della forze interiori e la loro insufficienza. Gesù si propone come rimedio a tutte queste difficoltà, presentando un giogo dolce ed un peso leggero, dichiarando che Lui lo porta insieme a noi e infine promettendo il ristoro.
Ma a guardarsi intorno (e inviterei a guardarci bene in faccia, anche in questo momento…) un po’ stanchi e oppressi lo siamo tutti noi anche oggi. Sarà cambiato qualcosa rispetto ai tempi in cui Gesù ha pronunciato queste parole?
La maggior parte di noi vive in condizioni familiari e lavorative sotto stress, mentre invece il lavoro dovrebbe essere una soddisfazione, la famiglia una realizzazione delle proprie capacità.
Ma quando a metterci sotto stress, a essere un peso e una fatica, a farci sentire stanchi e oppressi è la vita di fede? Mi riferisco a gente che vive la fede e la religiosità come un peso, con un senso di oppressione e di fatica, quando le nostre azioni e le nostre pratiche religiose, anche quelle sacramentali invece di liberarci ci “ri-legano”, ossia ci legano ancora di più a Dio in maniera talmente oppressiva da spingerci ad atteggiamenti di forte rifiuto nei confronti delle cose di Dio oppure ad una partecipazione rassegnata e abitudinaria agli eventi religiosi, magari inventandosi una scusa, una ragione valida che giustifichi la nostra presenza in chiesa o in comunità (ci vado ancora perché devo fare quel servizio o perché non sono ancora riusciti a trovare chi mi sostituisce, ecc.).
Gesù, oggi, ci obbliga ad uscire dalla nostra autosufficienza per andare verso Colui, che condivide con noi il giogo della quotidianità, per imparare da Lui passo dopo passo l’umiltà e la mitezza di cuore.
Viene a sanare tutte le nostre malattie e ogni nostra stanchezza: il peso della strada già percorsa che si fa sentire, il peso degli incidenti di viaggio, delle delusioni, delle incomprensioni, degli insuccessi, il peso delle persone, di un ambiente ostile, dell’ingiustizia, della falsità, della sfiducia.
Se in questo momento non abbiamo più voglia di nulla, salvo che di lasciarci andare, siamo nel posto giusto! Abbiamo fatto bene a venire al Convegno!
Dio non delude. Lui ci attende paziente ai bordi delle nostre strade, alle periferie delle nostre storie, per tenderci la sua mano ancora una volta, perché il peso non lo si può portare da soli… bisogna essere almeno in due!
Senza Cristo al nostro fianco il peso delle nostre fragilità, dei nostri limiti, dei nostri peccati, delle fatiche quotidiane, a lungo andare, potrebbe solo schiacciarci, ma con san Paolo sappiamo bene che «se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).
Sono assolutamente convinto che il Signore non ci darà alcun progresso in Comunità se prima non avremo superato personalmente questa malattia spirituale dell’autosufficienza e dell’egocentrismo.
Ogni volta che rimandiamo la guarigione delle nostre malattie spirituali e poi abbiamo anche la “santa pretesa” di imporre le mani sui fratelli e di animare e condurre preghiere carismatiche, non facciamo altro che ritardare lo sviluppo e la crescita della Comunità.
Quindi alla domanda: “Perché la Comunità cresce (o non cresce)?” la risposta è solo e soltanto una: “Non ho voglia di abbandonare le mie malattie spirituali”.
Anche perché possiamo diventare talmente abili nel conviverci di poter convivere con determinate situazioni personali, che pensiamo pure di poter andare avanti ugualmente così, tanto nessuno se ne accorge o ci fa più caso. Ma nel mondo carismatico questo non è possibile. L’azione carismatica semplicemente si blocca, perché noi “non amiamo a parole, ma con i fatti e nella Verità (1Gv 3,18)”.
Non dimentichiamo che in Comunità portiamo tutto noi stessi, in corpo, anima e spirito: anche in questo Convegno portiamo tutto noi stessi, la nostra presenza e anche chi non è presente porta qualcosa… la sua assenza!
In questa sala respiriamo la stessa aria e questo crea “condivisione”. Siamo quindi costretti per natura a condividere, ma che meraviglia poter condividere non solo l’aspetto fisico e materiale ma anche quello spirituale!
Per questo tutti noi “affaticati e oppressi”, Comitato di Servizio, fraternità sacerdotale, consacrati, iniziatori, incaricati dei servizi, fedeli, abbiamo prima di tutto il dovere di individuare, riconoscere e guarire da questa fatica e da questa oppressione. Senza questa guarigione non possiamo “andare da Gesù”, perché non sapremmo cosa dirgli, cosa che a volte può capitare pure in preghiera…
Ci può venire in aiuto un famoso brano di san Paolo (Rm 8,9-17) che bene mette in evidenza il travaglio interiore che viviamo nei momenti di fatica e stanchezza spirituale: “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete.
Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Nel linguaggio paolino, “carne” non indica prima di tutto la sessualità, ma invidie, gelosie, tristezze, risentimenti, cioè tutta la negatività che prolifera in noi quando ci ritroviamo in balia di forze interiori che non controlliamo e vittime di circostanze esteriori che ci soffocano e ci stritolano.
Per Paolo, i cristiani, pur subendola, non sono sotto il dominio di questa negatività interiore ed esteriore, ma sotto l’influenza dello Spirito e i frutti dello Spirito; i segni della presenza dello Spirito sono l’amore, la gioia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza, il dominio di sé, come si legge nella lettera ai Galati (Gal 5,22).
Perché allora, invece di questi sentimenti positivi, perdurano in noi quelli negativi, prevale il dominio della “carne”? Perché continuiamo a fare la dolorosa esperienza della nostra vulnerabilità nei confronti della negatività che è in noi e di quella che ci condiziona dall’esterno? Vuol forse dire che non siamo dei buoni cristiani, che non corrispondiamo veramente alla grazia, alla vita dello Spirito in noi?
Il dramma della condizione umana non è tanto né prima di tutto quello di fare cose sbagliate, di peccare, ma la divisione interiore, la presenza in noi di una parte di tenebra che sfuggirà sempre al nostro controllo, fino alla fine, e contro la quale non possiamo nulla.
Nella stessa lettera ai Romani Paolo parla della drammatica esperienza di questa divisione interiore quando afferma: “Non riesco a capire ciò che faccio, infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto…. In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo, infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7,19).
Chi di noi non desidera diventare migliore? Chi di noi non ha cercato di lottare contro aspetti della propria negatività interiore per superarla, sperimentando però la propria impotenza? Questo non vuol dire che la santità sia impossibile, ma che è necessario farsene una idea giusta.
Santità infatti non vuol dire perfezione, cioè totale eliminazione della parte di ombra che c’è in noi. Questa non solo non sarebbe santità, ma potrebbe diventare una forma di orgoglio che invece di migliorarci ci renderebbe più ipocriti, alimenterebbe in noi l’illusione di essere autosufficienti, superiori agli altri, di non avere più bisogno di nessuno, nemmeno del Signore.
Sarebbe insomma una caricatura della santità che ci farebbe rientrare nella categoria dei sapienti e dei dotti di cui parla Gesù proprio in questa pericope di Matteo e da cui ci invita a tenerci a debita distanza.
Chi non ammette la propria stanchezza e le proprie oppressioni e indossa la maschera del “va tutto bene” non può percepire questa chiamata di Gesù, non ha bisogno di lui, va per la propria strada. Gesù non ci promette la perfezione in questa vita, né che non ci saranno più sofferenze interiori ed esteriori, non ci libera neanche dalla dolorosa esperienza di non riuscire a corrispondere al suo amore per noi, ma ci chiama a sé: Venite a me!
Nella nostra quotidiana esperienza di fatica e oppressione ci offre la condivisione, prende il nostro peso su di sé, non per dispensarci dal portarlo noi, ma per portarlo con noi.
Il nostro vero peccato, infatti, non è in questa miseria che ci portiamo dentro, anche quando ci conduce a fare dei gesti di cui poi ci pentiamo. Il vero peccato è nell’orgoglio, nel credere di non aver bisogno del Signore o peggio ancora di spacciare ogni situazione che viviamo come “la sua volontà”.
Quando non saremo più stanchi? Quando saremo unificati e tutte le nostre facoltà convergeranno in un solo volere: il bene e il massimo bene che è Dio. Non più tante volontà diverse ma una sola con quella di Dio.
Il Signore non guida i suoi emanando leggi da osservare, ma comunicando il suo Spirito, la sua stessa forza vitale. Mettersi alla scuola di Gesù significa ritrovare la libertà nel rapporto con Dio. Vuol aprire la nostra vita alla serenità e alla gioia.
Il giogo
Arrivati a questo punto, quando sembra che in Gesù dovremmo aver trovato la soluzione ad ogni nostro conflitto interiore ed esteriore, ecco la sorpresa! Gesù ci parla di metterci addosso un giogo, un peso. Ci verrebbe da dire: “Ecco qua, lo sapevo che neanche lui è coerente…”. Prima dice di toglierci i pesi e poi ce li restituisce sotto altra forma. Anzi per prenderci ancora più in giro ci dice che è “dolce e leggero…”.
Ma anche in questo caso occorre calarsi nello spazio e nel tempo in cui queste frasi sono state pronunciate la prima volta: gli ascoltatori di Gesù conoscevano bene questo “giogo” e il suo significato.
Il giogo, lo sappiamo, è l’attrezzo che si metteva sopra agli animali per dirigerli nel lavoro.
Il giogo era anche una espressione rabbinica che indicava la legge di Mosè, sulla cui ottemperanza si fondava la vita del popolo e la fedeltà a Dio.
Adesso Gesù pone una nuova interpretazione a questo concetto: il giogo consiste semplicemente nell’abbandonarsi a Dio e nel riporre la sua fiducia in lui, nel lasciare che lui per primo ci ami disinteressatamente nel suo Figlio, nel lasciarci coinvolgere dalla gratuità del dono che è lo stesso Figlio di Dio. E in effetti lasciare fare a Dio quanto all’amore non comporta alcun gravame e non richiede competenza o maestria. Consiste semplicemente nel concedere che in Cristo Dio ci ami e ci prediliga. Sarà Dio stesso a ricompensare adeguatamente chi si sottopone a questo “giogo” perché Gesù stesso, nell’umiltà e nel nascondimento vive il “giogo” della comunione filiale con il Padre.
Così il giogo passa dal rappresentare l’osservanza della Legge di Mosè all’accoglienza della logica delle Beatitudini (Mt 5,1): non ci sono leggi da osservare per essere graditi a Dio perché è Lui che ci accoglie senza che noi dobbiamo fare qualcosa per lui. Non un amore da osservare (dottrina) ma un amore da ricevere.
Il giogo di Cristo consiste nell’imitarlo sulla strada dell’amore misericordioso e compassionevole verso il prossimo.
Anche Pietro, negli Atti degli Apostoli, quando vogliono imporre queste leggi anche ai pagani, dice: “Perché continuate a tentare Dio ponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare?”
Questa dottrina imposta è stata un fallimento perché nessuno è riuscito a seguirla e questo ha fatto sentire sempre l’uomo in colpa, in debito nei confronti di Dio. E quando ci si sente in colpa non si può sperimentare il suo amore.
Gesù non ci vuole invitare a imitare le qualità del suo carattere (una cosa impossibile avere il carattere e le qualità di Gesù…) ma la sua obbedienza filiale.
Questo giogo non si impone con la violenza. Non si può costringere nessuno ad amare come ha amato il Figlio di Dio; si può solo scegliere per sé. Anche in questo, il Cristo prende le distanze dagli altri maestri, i quali insegnano, ma non mettono in pratica quello che insegnano.
Per lo stesso motivo, durante l’ultima cena, il Signore sentì il bisogno di lavare i piedi ai Dodici: viene il momento in cui le parole non sono più sufficienti; è necessario passare ai fatti.
Io sono mite e umile di cuore
È necessario operare secondo una “imitazione di Cristo”, il quale si definisce “mite e umile di cuore”. Un atteggiamento da imparare, quindi Gesù è ben consapevole che queste caratteristiche non le possediamo per natura, anzi non ci viene proprio spontaneo. Sono virtù e come tali vanno acquisite pian piano.
Gesù indica anche la strada per questo apprendimento: è lui stesso, il suo modo di guardare agli altri pieno di compassione e di misericordia, è il suo modo di stare davanti al dolore, alla sconfitta.
La croce è la cattedra da cui Gesù ci insegna la mitezza che subisce senza rispondere.
Dunque la mitezza è la virtù di coloro che sanno voler bene, anche a sé stessi, e che sanno che l’arroganza ferisce anche chi la vive, non solo chi la subisce.
Dunque uno stile di vita mite parla di amore, non di stupidità; di forza, non di arrendevolezza; e in termini così intensamente umani da far intravedere Dio.
Il mite delle Beatitudini non è il bonaccione, quando occorre sa usare anche la forza nel modo giusto: pensiamo a quanta carica fisica ha avuto Gesù nel rovesciare i banchi dei cambiavalute!
L’umile di cuore è nell’originale greco il tapeinós. dal quale deriva il nostro “tapino”, applicato a chi è povero, misero, infelice basso, debole; è un vocabolo di grande rilievo nella spiritualità neotestamentaria. Per tre volte Gesù ripete la frase: «Chi si innalza sarà umiliato (tapeinós) e chi si umilia sarà innalzato» (Mt 23,12; Lv 14,11; 18,14). Paolo vede in Gesù l’immagine più fulgida di questa umiltà: «Pur essendo di natura divina… umiliò se stesso facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8).
Venite a me e troverete ristoro per la vostra vita
Solo a questo punto possiamo fare nostro l’invito iniziale: “Venite a me”. Questo percorso di purificazione e di riappacificazione con noi stessi, con gli altri, con Dio ci permette di “andare” e “rimanere” con Gesù e di ricevere da Lui quanto promesso.
Il riposo (anapausis) è un termine tecnico, è il riposo che si può ottenere grazie all’acquisizione della sapienza divina. il verbo “dare ristoro” (anapauo) significa cessare da una fatica, cioè recuperare il fiato. Gesù ci fa tirare il fiato, diventa il nostro respiro, ci dà ossigeno, ci ricarica.
Dovrebbe essere questo desiderio a spingerci a partecipare agli incontri di preghiera carismatica: devo riprendere fiato… Poi tutto il resto verrà da sé sotto l’azione dello Spirito: sceglieremo il canto giusto, gli animatori giusti, la diposizione giusta delle sedie…
Conclusioni
Gesù non ci promette la perfezione in questa vita, non ci promette che non ci saranno più̀ sofferenze interiori ed esteriori, non ci libera neanche dalla dolorosa esperienza di non riuscire a corrispondere al suo amore per noi, ma ci chiama a sé: Venite a me!
Rispetto alla nostra fatica e oppressione quello che ci offre è la condivisione, è il prendere il nostro peso su di sé, non per dispensarci dal portarlo noi, ma per portarlo con noi.
“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”, non è un nuovo sistema di pensiero, non una morale migliore, ma il ristoro, il conforto del vivere. Anche per me e per te, nominare Cristo deve equivalere a confortare la vita.
Le nostre riflessioni, i nostri incontri di preghiera, gli scambi di comunione, il parlare comune, devono diventare racconti di speranza e di libertà. Altrimenti sono parole e gesti che non vengono da lui, sono la tomba della domanda dell’uomo e della risposta di Dio. Invece là dove le domande dell’uomo e la bellezza del Dio di Gesù si incontrano, lì esplode la vita.